Dogman

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Presentato lo scorso 16 maggio in Concorso al Festival di Cannes, 
Dogman è il nono lungometraggio del regista romano Matteo Garrone.
Liberamente ispirato al delitto del canaro della Magliana avvenuto nel 1988, Dogman racconta la storia di Marcello, piccolo spacciatore titolare di un centro di tolettatura per cani, e del suo rapporto pericoloso con Simoncino, giovane e violento criminale del quartiere. Visivamente potente e straordinariamente ben recitato, il film dimostra ancora una volta il valore del cinema di Matteo Garrone, uno degli autori più radicali e coerenti del panorama cinematografico internazionale.

Film dal grande impatto visivo, Dogman è stato girato nei dintorni di Castel Volturno, in provincia di Caserta, un luogo particolarmente caro a Garrone che qui aveva diretto L’imbalsamatore e alcune sequenze di Gomorra. Molte scene sono ambientate in una località chiamata Villaggio Coppola, una serie di palazzi costruiti negli anni ’70 e che, prima del decadimento, ospitavano anche molte famiglie di soldati americani insediati nella vicina base Nato. Qui Garrone e lo scenografo Dimitri Capuani hanno costruito una serie di location desolanti che ricordano, a detta degli stessi autori, il paesaggio cupo di un vecchio luna park abbandonato.

Forse per accentuare la dimensione favolistica del suo film, o forse per sottolineare l’indipendenza dell’opera rispetto al fatto di cronaca che l’ha ispirata, Garrone sceglie di non dare una collocazione temporale precisa alla sua storia. Scelte estetiche relative ai costumi e agli ambienti suggeriscono un periodo compreso tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, ma altri piccoli dettagli di sceneggiatura (la bambina che naviga su internet, la presenza dell’euro e non delle lire) sembrano collocare la storia in un periodo più recente. Poco importa: privo di qualsiasi velleità di ricostruzione storica di quanto accaduto, Dogman possiede il tempo delle favole, cioè il tempo della paura, sentimento attorno al quale ruota tutta la storia.

Grande artigiano dello sguardo, Garrone conferma una straordinaria abilità nell’organizzare visivamente le singole sequenze. Riesce miracolosamente a trovare la frase, il gesto, l’espressione più adatta a caratterizzare i propri personaggi. Come nella scena ambientata nella sala giochi, un momento importante perché introduce lo spettatore alla brutalità di Simoncino. Attribuendogli un gesto irrazionale e imprevedibile (Simoncino, infuriato per aver perso denaro, dopo aver rotto laslot machine con una testata cerca di sollevarla e portarsela via) Garrone riesce a inquadrare il personaggio in modo molto efficace. Stranamente, anche quando le azioni dei suoi personaggi sono estreme, al limite dell’assurdo, il suo cinema appare sempre puntuale, adeguato, mai fuori luogo. Altra immagine di grande potenza è quella della gabbia, che qui non descriviamo per non rivelare troppo allo spettatore. Basti dire che la sequenza rimanda ad una delle prime scene del film, quando Marcello è alle prese con un cane di grossa taglia particolarmente aggressivo.

Oltre che di luoghi, il cinema di Garrone è anche un cinema di volti e di corpi, scelti con un’attenzione meticolosa. Come in un film di Pasolini, i volti di Dogman restano impressi nella memoria anche quando associati a comparse o personaggi secondari. Emblematica in questo senso la breve sequenza che mostra l’arrivo di Marcello in prigione: muovendosi in uno spazio quasi completamente bianco (una prigione bianca e piena di luce!) la macchina da presa si sofferma sui volti da incubo di due carcerati, come a presagire l’esperienza traumatica che Marcello dovrà affrontare.

Come reagirà Marcello di fronte alla paura? Il film ruota attorno a questa domanda, come ha confermato il regista nella conferenza stampa di Cannes. Perché in una società allo sbando, la paura è sempre dietro l’angolo. Chi non ha paura resta sempre uguale a se stesso, come Simoncino. Chi ha paura invece prova a cambiare. Marcello però non può controllare questo sentimento, che è riflesso sul suo volto grazie all’interpretazione magistrale di Marcello Fonte.

Un senso di ineluttabilità accompagna da sempre il cinema di Matteo Garrone. Lo spettatore non si chiede come andrà a finire la storia di Dogman perché lo sa già, ha un forte presentimento. E allora non c’è sorpresa finale se non quella di veder tragicamente realizzate le orribili premesse. Il cinema di Garrone è il cinema della bellezza. Quella perduta.
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