The Other Side of Hope

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©diaphana

"The Other Side of Hope è un film che, lo ammetto volentieri, tende in una certa misura e senza scrupoli a influenzare l'opinione dello spettatore e cerca di manipolare i suoi sentimenti per raggiungere questo scopo”.
Con queste parole il regista finlandese Aki Kaurismäki ha presentato il suo ultimo film, The Other Side of Hope, Orso d'argento per la miglior regia al recente Festival di Berlino, distribuito in questi giorni nelle sale italiane. Il film, secondo episodio di quella che il regista ha definito una "trilogia dei porti", racconta la storia di Khaled, giovane siriano in fuga dal suo Paese e rifugiato clandestino in Finlandia. Qui Khaled trova il sostegno del signor Wikström, bizzarro uomo di mezza età che ha da poco aperto un ristorante a Helsinki.

La storia ricorda quella di
Le Havre, il film precedente di Kaurismäki nel quale il protagonista, un bambino africano che arriva a Le Havre nascosto in un container, trova rifugio e ospitalità presso un abitante del luogo. In entrambi i film, ad aiutare i rifugiati sono due uomini di mezza età che vivono un momento delicato della propria vita, un cambio di rotta segnato dall'allontanamento dalla propria moglie, per malattia nel primo caso e per scelta nel secondo. Al di là dei numerosi elementi in comune sul piano narrativo, The Other Side of Hope si contraddistingue per un'atmosfera diversa rispetto a quella del film precedente. I toni fiabeschi e colorati di Le Havre lasciano spazio a tonalità più cupe, numerose sono le sequenze ambientate di notte, e a una messa in scena che, pur non rinunciando allo stile trasognato tipico del suo autore, appare in alcuni frangenti più realista, per esempio nella rappresentazione della violenza fisica. Film tra i più diretti e politici del regista finlandese, come confermano le sue parole qui sopra riportate, The Other Side of Hope ha un messaggio molto chiaro da trasmettere allo spettatore, e cioè descrivere il fenomeno dell’immigrazione al netto di stereotipi e falsi cliché.

Una decisione e una schiettezza che si ritrovano, piuttosto sorprendentemente, anche nelle numerose sequenze comiche. Abituati all'ironia malinconica del cinema di Kaurismäki, potremmo ritrovarci sorpresi di fronte ai momenti di pura comicità presenti nel film, quasi tutti concentrati nelle sequenze ambientate nel ristorante di Wikström. Il ristorante è una scenografia bizzarra, in pieno stile Kaurismäki, con tanto di jukebox e arredamento anni '50, tra camerieri svogliati, un cuoco che fuma e dorme in piedi, e una cucina che cambia ogni settimana, passando dal cibo indiano a quello giapponese senza soluzione di continuità.

La musica è, come sempre nel cinema di Kaurismäki, un elemento centrale del film. Rispetto al memorabile cammeo del rocker francese Little Bob in
Le Havre, nel quale grazie al suo concerto il protagonista riusciva a recuperare i soldi necessari per fuggire, qui i momenti musicali sono slegati dalla trama. Si tratta di brevi ma eccellenti passaggi live ambientati in un bar o per strada, interpretati da musicisti finlandesi quali Tuomari Nurmio, cantautore rock, e Ismo Haavisto, cantante e chitarrista blues. Tra i momenti musicali più significativi, quello in cui Khaled, il protagonista interpretato da Sherwan Naji, suona il saz, strumento tipico della sua terra.

Con la levità che lo contraddistingue da sempre, Kaurismäki riesce ancora una volta ad essere politico e poetico al tempo stesso, mostrando tutta la coerenza di un cinema fatto di uomini ai margini, di dimenticati che trovano la forza nella comprensione e nel sostegno reciproco.
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